giovedì 28 maggio 2009

L'Aikido


La finalità dell'Aikido non è rivolta al combattimento né alla difesa personale, pur utilizzando per la sua pratica uno strumento tecnico che deriva dal Budo, l’arte militare dei samurai giapponesi; l’Aikido mira infatti alla “corretta vittoria” (dal Fondatore chiamata: 正勝 masakatsu) che consiste nella conquista della “padronanza di sé stessi” (dal Fondatore chiamata: 吾勝 agatsu, cioè la “vittoria su di sé stessi”), resa possibile soltanto da una profonda conoscenza della propria natura interiore. Con questo il Fondatore dell’Aikido voleva affermare che per cambiare il mondo occorre prima cambiare sé stessi e ciò significa che se si vuole veramente acquisire quella capacità che il Fondatore dell'Aikido definiva 勝早日 katsuhayabi, cioè di padroneggiare l’attacco proveniente da un potenziale avversario esattamente nell'istante e nella circostanza della sua insorgenza (nel Buddhismo Zen si direbbe: qui ed ora), occorre aver preventivamente acquisito la capacità di padroneggiare pienamente se stessi.
L'Aikido pur discendendo quindi direttamente dal Budo giapponese e pur conservando ed utilizzando nella sua pratica tutto il bagaglio tecnico di un'arte marziale, non è tuttavia finalizzato al combattimento e quindi ad un risultato di tipo militare o di difesa personale, come potrebbe apparentemente sembrare osservando la sua pratica dall'esterno sul piano tecnico, ma è finalizzato al risultato della scoperta e dello studio delle leggi di natura che regolano le dinamiche e le relazioni che entrano in gioco nel rapporto fra gli individui nell'occasione dell'instaurarsi di un conflitto e/o un combattimento fra di loro; a tal fine l’Aikido pur utilizzando il patrimonio tecnico appartenuto alle arti marziali giapponesi, in particolare al daitoryu-jujutsu, e pur simulando circostanze di conflitto e di combattimento, non condivide la finalità dell’uccisione dell’avversario e neppure dell'offesa dell'avversario allo scopo di realizzare una difesa personale. L'aspetto dell'arte marziale e/o della difesa personale, si riconducono all’Aikido solamente in modo indiretto, quale elemento secondario della pratica, non quello principale.

Anche se osservando dall'esterno il bagaglio tecnico dell'Aikido l'esecuzione delle sue applicazioni tecniche dimostrino possedere una possibilità reale di un efficace impiego nel combattimento reale, in questo modo di considerare la pratica dell'Aikido si perde di vista l'aspetto sostanziale di esso, che consiste nel fatto che il combattimento quale arte marziale e/o la difesa personale non è assolutamente la finalità di questa disciplina e qualora tale aspetto diventi, per un malinteso intendimento di questa disciplina, l'unico o comunque il principale scopo della pratica, ciò sarebbe completamente fuorviante dalla finalità perseguita dal Fondatore stesso dell'Aikido, Morihei Ueshiba. Chi pratica l’Aikido secondo il suo corretto intendimento e finalità, è invece colui che ha maturato in sé l'obiettivo primario della pratica di una “disciplina interiore” e trasferisce questa finalità anche nella propria normale vita quotidiana, nel proprio modo di essere e di porsi verso altri, che è quello di colui il cui animo non si confronta..
Questo significa che, nell’avanzamento della pratica, l'aikidoista compie un percorso evolutivo nel quale il proprio spirito di competizione che inizialmente lo porta a lasciarsi spronare dal gusto e dal desiderio di confrontarsi con gli altri, man mano lascia il posto al gusto ed al desiderio di confrontarsi con se stesso, interiorizzando la propria pratica nell’impegno di superare sistematicamente i propri limiti a prescindere dagli altri: questo è il significato di possedere un “animo che non si confronta”, il quale si realizza quando lo spirito di competizione si è spostato dal confronto esteriore con gli altri al confronto interiore verso sé stessi.

L'Aikido e la risoluzione dei conflitti

Nell'Aikido trova piena applicazione il tipico concetto orientale del principio di non resistenza nella sua più alta espressione, il quale esprime esattamente il concetto opposto del noto principio occidentale frangar, non flectar. E’ importante però evidenziare come il concetto di non resistenza non significhi restare imbelli nei confronti di un ipotetico avversario; significa invece che la scelta fondamentale e prioritaria fra tutte le opzioni possibili volte alla risoluzione di un conflitto, consiste innanzi tutto nella ricerca della massima conservazione della propria integrità fisica, la quale è possibile solamente quando ci si faccia scivolare di dosso il peso del conflitto senza subire le conseguenze che derivano dalla contrapposizione forza contro forza.
Il tipico esempio orientale del ramo del salice che flettendosi sotto il peso della neve abbondante se la fa scivolare di dosso lasciando che cada a terra per effetto della stessa azione del suo peso ed in questo modo si mantiene ben integro e vegeto, simboleggia giustamente il principio di non resistenza, al contrario del ramo della quercia che invece, non potendo sopportare lo stesso carico di neve e non volendosi piegare, si spezza e muore.
Il principio di non resistenza, non rende dunque imbelli o non porta ad accettare supinamente gli eventi ed il compimento dei fatti, bensì educa e favorisce lo svilupparsi della capacità di sottrarsi agli eventuali effetti negativi delle azioni altrui, lasciando che queste ultime si esauriscano naturalmente senza che, per questo, ne derivi un danno per l’aikidoista. Solo in questo modo si può giungere alla condizione di rendere vana la voglia e la volontà aggressiva di un eventuale avversario e rimuovere quindi all'origine il presupposto del suo attacco (condizione chiamata dal Fondatore: shin bu); infatti quand’anche, rimanendo nella logica occidentale del frangar, non flectar, si riuscisse a sconfiggere l'avversario, poiché anche costui è in tale logica ed avendo di conseguenza subìto sicuramente dei danni, avrà ancora di più la voglia e la volontà di rifarsi, alla prima occasione. In tal modo la difesa é solamente provvisoria ed apparente e si rimane esposti facilmente all'evenienza di essere nuovamente attaccati dall'avversario, che quindi continuerà a costituire una continua e costante minaccia.
La finalità dell'Aikido non è dunque rivolta al combattimento né alla difesa personale, pur utilizzando per la sua pratica uno strumento tecnico che deriva dall’arte militare dei samurai giapponesi; l’Aikido mira infatti alla corretta vittoria (dal Fondatore chiamata: 正勝 masakatsu) che consiste nella conquista della padronanza di sé stessi (dal Fondatore chiamata: 吾勝 agatsu, cioè la vittoria su di sé stessi), resa possibile soltanto da una profonda conoscenza della propria natura interiore. Con questo il Fondatore dell’Aikido voleva affermare che se vuoi cambiare il mondo occorre cambiare sé stessi e ciò significa che se si vuole veramente acquisire quella capacità che il Fondatore dell'Aikido definiva 勝早日 katsuhayabi, cioè di padroneggiare l’attacco proveniente da un potenziale avversario esattamente nell'istante e nella circostanza della sua insorgenza, occorre aver preventivamente acquisito la capacità di padroneggiare pienamente se stessi.
Questo è l'ambizioso traguardo spirituale, morale e sociale dell'Aikido, che chiede all'aikidoista di essere sempre prioritariamente disposto a rinunciare alla finalità di ricercare la sconfitta di colui che si è posto nel ruolo di avversario, al contrario delle usuali discipline di combattimento che invece accettano di lasciarsi coinvolgere nell’antagonismo ed in tale ruolo si prefiggono lo scopo prioritario della risoluzione del conflitto attraverso il combattimento, cercando a tutti i costi di infliggere dei danni all’avversario anche a costo di ricevere anch’essi danni notevoli, pur di essere riusciti a portare comunque i propri attacchi all'avversario.
Questa concezione della risoluzione del conflitto che il Fondatore dell’Aikido definiva shin bu, cioè corretta vittoria intesa come 勝早日 katsuhayabi, vale a dire superamento del conflitto qui ed ora, esattamente nella circostanza e nell'istante del suo insorgere, senza antagonismo e senza combattimento, costituisce un irrinunciabile valore etico e morale di cui l'Aikido è portatore nel mondo.

mercoledì 20 maggio 2009

LA MUAY THAI



La Muay Thai (in lingua thailandese มวยไทย) nota anche come Thai Boxing o Boxe Tailandese, è uno sport da combattimento che ha le sue origini nella Mae Muay Thai, antica tecnica di lotta thailandese. La Mae Mai Muay Thai studia combattimenti sia con le armi che senza ed era utilizzata dai guerrieri thailandesi in guerra, qualora avessero perso le armi.


Attualmente il termine Muay Thai oggi identifica prevalentemente l'aspetto sportivo dell'arte marziale.


STORIA:
Il Muay Thai è un'arte marziale più comunemente nota come Thai boxe. Essa si diffuse sin dal 1500, nei primi tempi di pace del popolo siamese (Thailandia) quando i cittadini organizzavano manifestazioni ed incontri: era la pratica preferita dai civili, sia per divertimento che per difesa personale (chiamata allora Mae Mai Muay Thai). Allora si combatteva senza regole, senza categorie di peso, senza limiti di tempo, fino alla sottomissione, all'incoscienza o, tragicamente, alla morte di uno dei contendenti. Non si usavano protezioni a parte una conchiglia a protezione delle parti intime e una corda avvolta intorno alle nocche. A volte questa veniva intrisa in una specie di colla e in polvere di vetro, trasformando gli incontri in autentici bagni di sangue.

L'arte marziale moderna (nota come Thai Boxe e che si riavvicina ai canoni di sport come pugilato) come lo intendiamo noi fu data alla Muay Thai durante il regno del re Rama VI nel 1921 (corrispondente all'anno B.E. 2464), con l'introduzione dei guantoni e di regole affini appunto a quelle della boxe occidentale, (già allora molto popolare sull'onda del colonialismo). Il re comandò il generale Praia Nontisen Surentara Pahdi di costruire uno stadio nel Suan Kulab college e di organizzare competizioni ogni sabato. Negli anni la Muay Thai si è evoluta verso la dimensione sportiva, giungendo oggi a noi come una disciplina sportiva completa, che non ha perduto le sue caratteristiche antiche, i suoi riti dai significati sociali e religiosi, arricchitasi però dell'aspetto ludico.

In Thailandia quest'arte marziale è considerata sport nazionale, e gli incontri offrono notevoli possibilità di guadagno ai ragazzi che vi si cimentano. È stato più volte osservato che mentre i Thai si battono spesso, (almeno agli inizi) per mettere insieme pranzo e cena, gli stranieri, (i cosidetti farang) che praticano la Muay Thai, lo fanno più che per i pochi soldi in palio, per la gloria. Nella maggior parte degli incontri, e particolarmente in patria, i thai hanno saputo far valere la loro superiore esperienza rispetto ai farang. Qualche combattente occidentale ha saputo però superarli anche a casa loro, come ad esempio il leggendario olandese Ramon Dekkers (detto "il Diamante"). In generale gli occidentali mostrano un certo vantaggio nella tecnica pugilistica rispetto ai thai, i quali appaiono invece insuperabili per mobilità, rapidità, resistenza e nell'uso sapiente e micidiale della corta distanza, dei gomiti e delle ginocchia. Ultimamente lo sport si è aperto anche alle donne, e con successo: dalla difesa personale all'agonismo il passo è stato breve per non poche ragazze, soprattutto in paesi come Olanda e Francia (già supremi a livello europeo nel settore maschile) e nel mondo anglosassone, ma anche in Giappone e, superando le resistenze tradizionali, in patria. Fra le atlete menzioniamo le francesi Chantal Menard e Valerie Henin e le olandesi Lucia Rijker Saskia Van Rijswijck.

Nonostante oggi sia considerato uno sport a tutti gli effetti, il Muay Thai è considerata tra le più dure ed impegnative specialità tra gli sport da combattimento. Difatti, come accennato, è permesso percuotere con tutte le parti del corpo (tranne la testa) la quasi totalità dell'avversario ed è possibile effettuare alcune proiezioni. In particolare i thaiboxer sono temuti per l'utilizzo dei colpi di gomito, permessi quasi esclusivamente in Thailandia per la loro pericolosità.

In Italia la Muay Thai è giunta per la prima volta nel 1979 col maestro Stefano Giannessi e oggi attraversa una fase di sviluppo. Negli anni "90 alcuni atleti italiani si sono fatti notare in campo internazionale. Una recente polemica sta contrapponendo i sostenitori della versione "standard" della Muay Thai a quelli della Muay Boran. Quest'ultima, portata in Italia da Marco De Cesaris, costituisce una sorta di summa delle tecniche tradizionali andate via via perdendosi con l'emergere di una Muay Thai inevitabilmente "occidentalizzata" dalle regole imposte dagli anni Venti in avanti e dal contatto con il pugilato. Le tecniche tradizionali ricercate nel corpus di conoscenze dei maestri thailandesi e riportate in auge sotto il nome di Muay Boran vengono poi divise in stili regionali: Muay Tha Sao (nord), Muay Korat (regione dell'Isan o nordest), Muay Lop Buri (regione centrale), Muay Chaiya (sud). Dice una frase tradizionale: Punch (pugno) Korat, Wit (astuzia) Lopburi, Posture (posizione) Chaiya, Faster (velocità) Thasao. Ognuna di queste scuole regionali ha contribuito nel tempo allo sviluppo dell'arte nel suo complesso.

La muay thai sportiva è promossa in Italia dalla Federazione Italiana Muay Thai di Davide Carlot, presidente e delegato ufficiale per la IFMA Italia, unica federazione internazionale riconosciuta dal GAISF-CIO, partecipa annualmente con la propria squadra nazionale ai campionati mondiali di questa disciplina.


CARATTERISTICHE:

Caratteristiche di quest'arte marziale sono i micidiali colpi inferti con tibie (che anni di pratica condizionano fino a renderle durissime), gomiti e ginocchia. La Muay Thai in inglese è nota anche come "The science of the eight limbs" perché impiega otto punti del corpo per colpire: mani, tibie/piedi, gomiti, ginocchia.

Del tutto particolare è il condizionamento da applicare alle parti impiegate per colpire: un processo lungo e piuttosto doloroso per i principianti, che comporta il colpire con frequenza costante sacchi di allenamento di durezza via via crescente. I thailandesi usano addirittura certi tipi di alberi locali dotati di tronco molto flessibile e corteccia liscia, ma sembrano essere favoriti da una struttura fisica di partenza diversa rispetto a quella tipica degli occidentali.

I professionisti Thai, spesso figli di famiglie poverissime, iniziano la pratica dell'arte giovanissimi, facendo i loro primi incontri da bambini, intorno ai 9 anni, per essere considerati atleti pienamente maturi già sui 20. La Muay Thai é per i meno abbienti una via di realizzazione personale e professionale. La preparazione fisica è tra le più rigorose e sfiancanti di ogni sport: i professionisti osservano una rigorosa disciplina allenandosi due-tre ore due volte al giorno per cinque-sei giorni la settimana, correndo o nuotando per chilometri, saltando la corda, eseguendo flessioni su braccia e gambe, trazioni alla sbarra, esercizi per gli addominali e i muscoli del collo (importanti nel chap ko o clinch, un'altra particolarità della Muay Thai, una fase di lotta in piedi per sbilanciare l'avversario o entrare nella sua guardia) e cimentandosi in round dopo round di affinamento della tecnica ai pao o colpitori, il tutto sotto l'occhio attento di esperti maestri ex combattenti, i kru o ajarn. Oltre, naturalmente, allo sparring (simulazione di incontro, termine preso dal pugilato), condotto con maggiore o minore intensità a seconda del livello raggiunto, della preparazione e della condizione.

FILOSOFIA RELIGIONE E FOLKLORE:

MITOLOGIA: Tramandate in origine oralmente, le storie legate alla Muay Thai sono spesso circondate di un alone leggendario. Una importante leggenda popolare racconta che Nay Khanom Thom, principe ereditiere del regno del Siam nell'attuale Thailandia, fu fatto prigioniero dai birmani; si guadagnò la libertà impressionando il re birmano, battendo a mani nude dodici tra i guerrieri birmani più forti. Alcune versioni sostengono che egli abbia vinto, oltre alla sua libertà, anche quella di tutti i prigionieri che erano con lui.

Questa leggenda mostra come per chi pratichi la Muay Thai la figura di Nai Khanom Thom rappresenti lo spirito stesso del combattente, del Nak Muay: colui che non si arrende davanti alle avversità e che con coraggio e determinazione domina gli eventi. La tradizione ha fissato quel giorno al 17 marzo, che è diventato il giorno della Muay Thai.

Un altro sorprendente personaggio della tradizione Thai è il cosiddetto "Re Tigre", il cui vero nome era Pra Chao Sua. Si racconta che durante il suo regno, agli inizi del settecento, questo sovrano si recasse nei villaggi sotto false spoglie per trovare combattenti da affrontare e misurare così le sue capacità.


RITUALI FOLKLORISTICI E AMULETI: Prima di un combattimento alcuni lottatori di Muay Thai effettuano dei rituali: ciò è considerato importante in Thailandia, meno in Occidente ove i rituali sono comunque rispettati come espressione culturale del Paese creatore dell'arte. Alcuni combattenti eseguono i rituali fuori dal ring, altri pregano con il rispettivo allenatore o per conto proprio, per esempio toccando le corde del ring 3 volte. I thaiboxer si arrampicano sempre fino all'ultima corda del ring mentre vi entrano, nella cultura Thai, infatti, la testa è considerata più importante dei piedi. È importante ricordare di avere sempre la testa davanti al piede mentre si entra sul ring. Una volta dentro il lottatore va al centro del ring e si inchina verso ogni lato. A questo punto comincia il rituale del Wai Kru (o Wrai Khru ram muay). Il Wai Kru di solito inizia con il lottatore che cammina intorno al ring in senso anti orario, inteso come una specie di "navigazione del ring", inteso a dimostrare che il combattimento è solo ed esclusivamente tra i due combattenti presenti. Il rituale è insieme pratico e spirituale: nel senso pratico è una ginnastica che riscalda i muscoli e prepara il corpo al combattimento. Nel Wai Kru ci sono diversi movimenti e passi che un lottatore dovrebbe fare prima del combattimento insieme allo stretching. Alcuni movimenti imitano per esempio un cacciatore, un soldato, un esecutore. Alcuni utilizzano il rituale per spaventare il proprio avversario, di solito eseguendolo intorno ad esso, ma in un senso più profondo il combattente dimostra devozione religiosa, umiltà e gratitudine. Trascendendo le limitazioni fisiche e temporali, apre se stesso alla presenza divina e gli permette di infondere il suo cuore e il suo spirito. Nei tempi antichi il rituale era inteso a dimostrare devozione al Re e al proprio mentore, oggi la devozione è rivolta all'organizzatore dell'incontro e all'allenatore. Il rituale da inoltre al combattente la possibilità di prendere del tempo prima dell'incontro per raccogliere le idee e concentrarsi. Dopo la danza, il combattente va verso l'allenatore che rimuove il Mongkon e il Pong Malai. L'incontro comincia dopo un ripasso generale delle regole da parte dell'arbitro e un colpo amichevole dei guantoni tra gli sfidanti.

MONGKON: E' una fascia per la testa che serviva per proteggere e portare fortuna al combattente che lo indassava. Questo amuleto protettivo consiste in una stretta striscia di stoffa contenente lettere magiche e simboli che viene arrotolata molto stretta, in modo da assomigliare a una corda (grande quanto un dito) e viene legata con un filo sacro e protettivo: il "sai sin". Quindi, il mongkon, viene avvolto con un secondo nastro di stoffa precedentemente benedetto da un maestro di arti magiche. Infine le estremità vengono legate insieme in modo da formare una piccola coda che, quando il "mongkon" viene posto sulla testa del combattente, sporge dal retro del capo. Il "mongkon" viene indossato durante vari rituali: ad esempio nel "wai kruu" (piccolo rituale svolto prima dell'inizio del combattimento) e nel "ram muay" (una danza che il pugile compie prima di inchinarsi dinanzi al suo maestro). Finito il "ram muay", il mongkon viene rimosso, prima che inizi il primo round dell'incontro.


Oggi, il mongkon serve a classificare i gradi dei maestri di Muay Thai.

PRACIAT o PRAEJAT: E' un altro amuleto protettivo in grado di donare forza, fortuna e di aumentare la capacità di recupero del combattente. La consistenza è simile al monkgon: dei fili sacri intrecciati a forma di corda con una piccola coda che unisce le estremità. In genere questi amuleti erano di una pregiata stoffa bianca ("pha salu"), ma poteva anche essere rossa o di altri colori, a discrezione del maestro oppure a seconda degli incantesimi rilasciati sull'amuleto che contiene numeri e simboli magici ("maha amnart" e "chatri mahayanta"). A differenza dei mongkon, i praciat vengono indossati e legati attorno ai bicipiti.

sabato 16 maggio 2009

SPORT O FILOSOFIA?



Che cosa c'è dietro alle arti marziali? Sono solo sport alla stregua di tutti gli altri? Secondo il modo di pensare occidentale si, e anzi sono spesso tenute in minima considerazione se messe a confronto con altri sport, come il calcio o il baseball. Tuttavia non appena ci spostiamo verso i nostri cugini che popolano l'Oriente, grandi maestri nelle arti marziali, che per definizione vogliono dire arti di guerra, del combattimento corpo a corpo, qualcosa in più traspare dallo studio degli stili di combattimento. Ciò che si può notare di differente in una perfomance compiuta da un maestro orientale rispetto ad un professionista occidentale è una certa sicurezza in più: non è la maggior ricerca di perfezione, che invece caratterizza sia il combattente dell'occidente che quello orientale, ma il loro diverso punto di vista su questi sport, che fino a qualche secolo fa (per alcune anche molto di meno) erano considerate religioni, punti di vista che danno una visione differente delle tecniche di combattimento e che arrivano a culminare necessariamente in una filosofia di vita tutta particolare, che ben si può riassumere con le massime Zen.
Cercherò qui di analizzare i maggiori e più famosi stili di combattimento e di mettere in luce la filosofia che un tempo racchiudevano questi stili... ENJOY!